In memoria di te, Paul Celan
a cura di Luigia Sorrentino
—
Le vittime della Shoah furono circa 6 milioni. Fra esse, dovremmo includere un nome, o un non-nome, se preferite: Paul Celan.
Tutta la sua esistenza, incarnò strenuamente l’immane tragedia dello sterminio che transfuse in sé e nella poesia al punto da annullarsi totalmente come persona. L’epilogo di Celan fu il suicidio. Con quell’atto finale il poeta testimoniò la sua personale vergogna: l’aver scritto da esule, (viveva in Francia) nella sua lingua-madre, il tedesco, (la lingua-madre degli aguzzini nazisti.)
La sua vita quotidiana si svolse in francese, “a fronte” dei propri testi scritti in tedesco. Lo sguardo di Paul Celan non si distolse mai dal “Gegenuber” (qualcosa a fronte), che Celan identificò nella Memoria.
Epilogo. La traduzione del dolore
di Camilla Miglio
Paul Celan ha tradotto, o meglio traslitterato il proprio nome dal tedesco al rumeno. Da Antschel a Ancel. Lo ha poi ripetuto a testa in giù. Cel-An: può suonare rumeno, francese, comunque straniero a orecchie tedesche. La ripetizione del nome, lo pseudo-nome diventa la sua persona nell’interessante accezione latina ricordata da MarKo Pajevic: da per-sonare, risuonare attraverso.
Celan amava contaminare diversi mondi nella memoria di un nome. Con gesto uguale e contrario a quello compiuto on il proprio, germanizza Osip Mandel’stam in Ossip Mandelstamm. Il cognome viene semantizzato, gli viene conferita la dignità di Nome all’interno delle “concordanze” dell’opus celaniano: Mandelstamm, Mandel, Stamm, Mandel-baum, Baum, Machandelbaum (quest’ultima formulazione aggancia agilmente una delle più truci fiabe della tradizione popolare germanica in cui un neonato viene squartato e dato in pasto ai familiari.)*
La ripetizione speculare, inversa, del nome proprio (Ancel-Celan, Mandel-Stamm) genera significati che si ramificano in un corpus poetico, dando luogo a qualcosa che non è identità, ma provvisoria, mobile forma di un io che reagisce a un tu: oggetto luogo o persona. Nel nome straniato, nel parlare frammentario, Celan segna la fine di un certo tipo di comprensibilità inteso come intellegibilità, ma ci fa intuire anche l’alba di un nuovo, parziale comprendere.*
Celan aveva programmato una raccolta di traduzioni dal francese al tedesco, ovvero dalla lingua in cui viveva la propria quotidianità a quella in cui scriveva. Come sappiamo, ne aveva già pensato il frontespizio: Fremde Nahe, [Vicinanza estranea]. Il titolo pone interrogativi che vanno oltre il progetto di raccolta di traduzioni. Se cerchiamo di stabilire i contorni di questa “vicinanza estranea”, o “intima distanza” (come direbbe Antoine Berman), cominciano a moltiplicarsi le domande.
Vicina estranea. Chi? Abbiamo di volta in volta trovato risposte diverse, eppure legate tra loro.
Vicina estranea è la poesia. E’ la scrittura propria e di altri che hanno già scritto e che si tenta di tradurre, producendo ripetizione e differenza.
E’ la morte. La morte di chi dice io nella poesia. La morte di una madre che diventa (frammentaria) figura allegorica della distruzione di un popolo e di una “contrada” europei.
E’ la vita, del corpo e nel corpo, nella mente che si aliena dal corpo, che ritorna sul confine oscillante tra amore dolore follia.
E’ la lingua, la lingua tedesca, vicina e straniera. Non è il tedesco-federale, non l’austriaco. E’ la lingua tedesca un tempo parlata “a est”, molto a est. In Bucovina: alla periferia del’ex impero astroungarico, alla periferia della Koinè di lingua tedesca, che pure sapeva insegnare i Lieder di Goethe e di Schiller al proprio figlio vicino postasburgico, poi rumeno, apolide, infine, cittadino francese.
Vicina estranea è la terra dove si è trovato asilo. La Francia in questo caso. Ma anche la terra perduta. L’est è la terra vicina (vicina alla “parete del cuore”), alla propria voce interna. E’ nello stesso tempo straniera, straniera per tutti perché lontana, anzi inabissata nella dimenticanza.
Cosa lega poesia, morte, vita, scrittura, lingua, terra perduta, terra d’esilio, terra interiore, traduzione?
Li lega una traccia che dà forma al perimetro poetico di Paul Celan. Una traccia che largamente si sovrappone ai lembi della sua esistenza.
Il profilo è dato dalla ricerca di un “Gegenuber”: “qualcosa a-gico”. O “monologico”. L’io e io tu non sono identità stabili, bensì discrete, che si ridefiniscono a vicenda, nel loro interagire, differire, l’uno di fronte all’altro.
Cosa c’è, per Celan, “Gegenuber”, a fronte?
La madre/la terra inabissata.
La lingua dei nomi, in cui cercare sempre provvisorio asilo.
Una differenz: di lingua, di scrittura, di stile. Lui, tedesco dell’Europa orientale si confronta con i tedeschi, i francesi, gli europei dell’Europa occidentale. La separazione interiore è favorita dalla condizione di isolamento dell’est che a causa della guerra fredda si trova di là dalla cortina di ferro.
Una figura di possibile identificazione: il ‘russo’, l’orientale Mandel’stam. Raro momento veramente dialogico in cui io e tu, passato, presente e futuro, terre e memorie precipitano in un’unica figura (Paul-Pawel-Ossip-Osip) in un unico luogo (Normandia-Russia-Boemia-Praga-Bucovina-Ucraina-Mar Nero…), come in un teatro della memoria.
L’eccentrico Ungaretti. Eccentrico rispetto ad altri poeti italiani. Nella sua figura e nella sua opera Celan crede di trovare – non senza forzature – una possibile continuità tematica e di ricerca sulla parola essenziale, rammemorante e al tempo stesso ‘creaturale’, che rende presenza l’assenza.
Il confronto, la lotta mortale col silenzio inappellabile del dolore. Il tentativo di attingere ‘oltre’ la parola, alla follia, all’eros, per scoprire la non identità individuale. Passare dall’altra parte, saltare il cerchio di fuoco. * Sconfinare nei territori della morte, dei morti, per forzarne una ri-generazione, una lingua pensata, “come dice Valéry da qualche parte – status-nascendi. […] dove ogni parola richiama qualcosa a fronte [‘ein-Gegen’]”.
Il testo a fronte. La traduzione è uno dei modi attraverso cui Celan si è messo in relazione con il “Gegenuber”.
Sulla pagina le tracce, le mappe per orientarsi di fronte a queste assenze, intermittenze, opacità di comunicazione. Anche in ostinate contrapposizioni e sotterranei dialoghi: con Valéry, con Benn.
Il percorso di Celan interroga l’atto dello scrivere e del tradurre e tradursi da una lingua all’altra. La traduzione, esattamente come la scrittura poetica, si fa luogo in cui sperimentare le possibilità del comunicare (e del non comunicare). La completezza della traduzione è solo un sogno. La realtà è più vicina a ciò che è precario: “Come accade in mare quando ci si chiama da barche diverse , di notte, con lanterne nell’acqua buia, con volti e corpi nel buio” – sono parole di Antonella Anedda proprio sulla traduzione – Chi risponde deve tener conto dell’aria e del fragore, del freddo, del tremore dell’onda, del tremore del fiato: per capire il richiamo, per remare verso l’essenziale di ciò che sembra inesprimibile.”
Il cono d’ombra dell’inesprimibile, intraducibile, persiste comunque. Questa è la testimonianza di Celan – nonostante le lanterne. Qualcosa si perde, o meglio: permane altrove. Quando si passa dall’originale alla traduzione. Quando si interroga un parlante in lingua tedesca intrisa di memoria orientale.
Resta un fuoco d’ombra che nessun fuoco di pentecoste può rischiarare, per quante lingue si possano imparare. La presenza dell’ombra distingue dalla natura comunitaria e circolare del canto religioso la singolarità irriducibile del canto poetico così come dell’urlo creaturale. E’ l’acqua scura su cui si traghettano i significati, tra le lingue e tra le persone, tra tempi e luoghi diversi, attraverso cui viaggiano voci che si rispondono senza corrispondersi del tutto.
Il Tu è sempre un Gegenuber, un “a fronte”, interrogato per arrivare alla provvisoria costituzione di un io. Il tu esiste come riverberato nell’appropriazione, nella fecondazione dell’io. Eppure non è mai raggiunto completamente. Non c’è circolarità, identificazione, se non a costo della perduta identità.
Se il Tu è la lingua altra, lo potrò raggiungere solo in modo parziale, attraverso la lingua mia. Se il Tu è la morte, la potrò raggiungere solo in modo laterale, come testo a fronte della morte Se il tu è vita, è dolore – come testo a fronte della vita, del dolore.
“Non parlare mai della situazione in cui una poesia nasce [‘Entstehung des Gedichts’]”, ma solo della poesia che è nata [‘das enstandene Gedicht’]” * : si tratta di un commento al dolore vissuto e visto, ma di cognizione – in figura – del dolore. Pensiamo a Gadda: “dall’antro della fucina rendeva la percossa al monte: il rimando del monte precipitava sulle cose, dal tempo vuoto deduceva il nome del dolore. E della torre, dopo desolati intervalli, spiccavasi il numero di bronzo, l’ora buia o splendente”.
Lanciato il proprio messaggio in bottiglia; tentato di spostare il valore del respiro, dell’alito-ruach, dall’ambito della morte(ultimo respiro), all’ambito della vita (“vagito espirante dell’essere unico che fa il suo ingresso nel mondo”*) – la voce di Paul Antschel scompare nell’onda vuota, come a Finisterre, nei versi di Eugenio Montale, scritti in piena guerra, nel 1942: “non ancora/ tra le rocce che sorgono t’è giunta/ la bottiglia dal mare. L’onda vuota,/ si rompe sulla punta, a Finisterre”. Anche nel momento più terribile, in piena guerra, Montale scrive: “non ancora…/ ti è giunta”. In quel “non ancora” montaliano si può ravvisare la speranza del “chissà” lanciato come sfida, come controparola, nel Meridian:
Ma il poema parla […] ritengo che tra le speranze del poema vi sia quella di parlare […] per conto di un Altro, chissà, magari tutt’altro. Questo “chissà”, a cui ora mi vedo approdare, è l’unica cosa che -pur oggi e qui – io possa di mio, aggiungere alle vecchie speranze. La ferita Celan, come già la ferita Heine, non si chiude. Ma, come (non senza ironia) ha scritto Enzensberger: la ferita/ del possibile sanguina ancora”. La vita a fronte, la traduzione del dolore è questa ferita.
da “Vita a fronte. Saggio su Paul Celan” di Camilla Miglio, (Quodlibet edizioni) euro 22,00.
Oggi é la
‘Giornata della Memoria’, del ricordo. Con il poeta Paul Celan un ‘viaggio’ doloroso a ritroso di ciò che ha rappresentato ‘l’Olocausto’, ma anche per riflettere ciò che ha rappresentato per decenni il ricordo di quell’immane tragedia per i sopravvissuti ebrei e per i loro figli. Paul Celan ‘vivo’, nel ricordo perenne della Shoah e dei suoi giovani genitori morti in un campo di concentramento nel 1942, segnato da un percorso esistenziale drammatico fino a portarlo a soli 50 anni al suicidio in quelle acque della Senna nell’aprile del ’70. Tenendo ben custoditi nelle tasche i ‘suoi’ sassolini mentre cercava la morte. Anche Mariella Mischi poeta strordinaria veronese, che adorava il poeta Celan e che a lui dedicò il suo penultimo libro ‘Alle porte dei ritorni’ edito da Book, cercò la morte nelle acque dell’Adige nel 2007 nel giorno di ferragosto, tenendo ben stretti i sassolini nelle tasche, come il suo idolo. I sassolini mi riportano anche ad altre circostanze, di solito quando facciamo visita ad un cimitero ebraico, uno é presente anche a Viareggio, troviamo ai lati o ai piedi delle tombe mucchietti di sassolini. Un rituale struggente dei ‘vivi’ per onorare i propri cari, ma altresì un rituale che evoca appartenenza e ricordi drammatici… Insomma questa ‘giornata’ del 27 gennaio istituita in Italia nel 2000 (consacrata inoltre negli Stati Uniti nel 2005 come ‘Giornata mondiale della Memoria’, per ricordare le camere a gas, i forni crematori, la pianificazione dunque e lo sterminio del popolo ebraico) é anche un piccolo ‘risarcimento’ per la vergogna perpetrata dalle leggi razziali antisemite promulgate in Italia nel 1938. Rosanna Lupi segr. Premio Camaiore
Cara Rosanna, dobbiamo dire Shoah, non Olocausto……. Fu uno sterminio vero e proprio… non un “sacrificio”, quindi. Tanto per “dis-ambigu-are” le parole. E’ più corretto dire Shoah, ossia, la catastrofe
שואה
Si é usato a lungo la parola Olocausto. Penso, dal mio modesto punto di vista, che Olocausto sia inteso anche come sacrificio subìto (e non offerto) da un intero popolo. Distrutto, bruciato interamente, arso e qui si ravvede anche la ‘comunione’ con in forni crematori, etc. … La Shoah é un termine ‘oggi’ più rappresentativo del genocidio inflitto agli ebrei, ma ciò non toglie che Shoah e Olocausto si integrino talvolta per dare un senso più compiuto a tutto ciò che ha rappresentato la persecuzione
Cara Rosanna,
sacrificio: dal latino sacrificium, sacer + facere, “rendere sacro”.
Dobbiamo stare attenti alle parole che usiamo.
Io capisco quel che lei vuole dire. Sono in molti a dire “Olocausto”, e quindi a dire, inconsapevolmente e in assoluta buona fede “sacrificio” e non “sterminio”, come dovrebbe essere detto.
Attenzione due volte: perché la parola “sacro”, (sakros), stabilisce una alterità, un “altro”, un “diverso” dal comune… (penso ora agli omosessuali, anch’essi vittime dello sterminio).
Attenzione tre volte: “Sacrificare” un intero popolo a dio mi sembra un atto terribile.
Mi scusi, se insisto, ma io preferisco dire “Shoah”.
Proprio perché non si può – non si deve – fare confusione.
La Shoah è la catastrofe, è lo sterminio, un fatto storico che non ha, – insisto – nessun significato religioso.
La ringrazio per il suo intervento.
http://www.binario21.org/stermishoah.htm
Grazie della lezione.
Quando ci si scopre poeti, ci si scopre anche incredibilmente ebrei, forse perché la parola poetica attraversa sempre la morte, come in un perenne esilio: la tragedia tutta umana (purtroppo) della Shoah è quasi un a-priori imprescindibile oggi per chiunque possa anche solo immaginare di scrivere poesia. Quelle ceneri sono anche le nostre ceneri, noi scriviamo attraverso quelle ceneri, la nostra scrittura si è fatta cenere per ricordare
Gentilissima Rosanna,
grazie davvero, non voleva essere una lezione la mia, ma se è servita a dire meglio, e più correttamente, mi fa piacere.
A presto
Carissima Giovanna Frene,
condivido pienamente quanto scrive. E’ proprio così. Noi tutti, poeti compresi, dobbiamo riconoscere ‘la nostra assenza’ e capire ‘alla lontana’ che quelle ceneri – come dice lei – sono anche le nostre.
Paul Celan lo fece in modo totalizzante: guardò al terribile destino di coloro che morirono, ma anche di coloro che sopravvissero alla Shoah. Guardò la loro pena e scrisse per i morti.
Celan rivelò il tipo di lettura che si deve fare della sua poesia, il tipo di ricezione che si aspettava dai suoi lettori. ‘Le poesie sono doni’ diceva Valery. Anche le poesie di Celan lo sono. Bisogna capire che cosa è questa ‘cosa’ che ci viene donate.
Celan non abbandona la lingua tedesca, come scrive la Miglio nel suo saggio memorabile riprendendo Lydia Koelle – per scrivere “non solo in memoria di, ma anche al posto dei morti,per i morti”.
Grazie per quanto riportato sul poeta Celan e sulla Shoah, ho letto il saggio e i commenti con commozione e un brivido: conosco
la poesia dolorosa di Paul Celan sullo sterminio degli Ebrei e la interpretazione offerta è illuminante. E’ un commento a caldo.
Rileggerò con calma il tutto, per meglio approfondire la straordinaria figura del poeta e del rapporto della sua poesia con la Shoah.