Nicole Janigro, ‘Le lingue e i luoghi’

Altre scritture: Nicole Janigro ‘Le lingue e i luoghi’
a cura di Luigia Sorrentino

All’inizio non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua.
Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parole che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?

Agota Kristof, L’analfabeta

Voi vorreste, signori, che vi mostrassi la mia casa natale? Ma mia madre ha partorito nell’ospedale di Fiume, e questo ospedale è ormai distrutto. Non riuscirete a mettere una lapide sulla mia casa, perché anch’essa è probabilmente distrutta. Oppure dovreste mettere tre, quattro lapidi con il mio nome: in diverse città e in diversi stati, ma anche qui io non potrei aiutarvi, perché non so quale è stata la mia città natale, non mi ricordo più dove ho vissuto durante l’infanzia, so appena in quale lingua ho parlato.
Quel che ricordo sono immagini: la palma che dondola e gli oleandri da qualche parte vicino a un qualche mare, il Danubio che scorre torbido, verde, vicino ai prati, una filastrocca: èn-den-dina, ti-raka, tina…

Danilo Kis, Apatride

“Le lingue e i luoghi”, di Nicole Janigro

1 Di giorno le lingue si alternano, in buon ordine, ciascuna ha la sua ora e il suo argomento di conversazione. Nel sogno le lingue si confondono, la lingua dell’infanzia ricompare come uno slogan che a lettere capitali dice Nemoj se ubiti (non ti uccidere). La lotta tra la lingua madre e la lingua matrigna-paterna era durata anni, come perenne era stato il conflitto tra i genitori. L’italiano era sensatamente prevalso, per affermarsi anche di notte aveva dovuto scacciare il croato. Una tensione drammatica che coincide con spostamenti geografici che conducono in un altrove straniero eppure curiosamente familiare, segnano, ai tempi che erano quelli della guerra fredda, il passaggio dall’est all’ovest – dalla scarsità di merci al tripudio merceologico. Il cosiddetto io in questi casi si trova sempre nel mezzo, costretto a dimenticare per poter poi, e di nuovo, ricordare. Un adattamento estero-esterno-estrovertito-estroverso a qualcosa di indigeno-interno- introvertito-introverso. Una condanna all’irresolutezza, nell’interrogazione ripetuta se dare retta all’essere o all’apparire.
La lingua madre aveva suoni che all’italiano appaiono impronunciabili, la lingua paterna doppie che perseguitano con la possibilità continua di cadere nell’errore – l’insicurezza semantica che insidia la stabilità psichica. L’alfabeto può diventare un’ossessione, il vocabolario quell’ancora di salvezza che placa l’ansia da perfezione – il bilingue vive spesso circondato da dizionari. L’oggetto del desiderio è una macchina da scrivere croato-italiana capace, come la vecchia Singer delle nonne, di cucire insieme le a e le zeta, le š e le ž – quello che oggi rende possibile uno switch del computer.

2 Con le due lingue sempre appresso si cammina con un cappotto foderato di lettere che nascondono trappole ma offrono anche rifugio, con lenti speciali che costringono a posare sui luoghi uno sguardo doppio: di chi ci sta dentro consapevole di un fuori.

“Dal mio promontorio astratto e separato, questo appartamento dell’Upper West Side ha la stessa aria surreale di un oggetto finito in primo piano su una tela di Magritte. Mi piomba addosso l’imponderabilità: sono qui e sento le correnti polemiche e quelle affettuose, ma dall’altro punto del triangolo questa è solo una versione arbitraria della realtà. La stanza comincia poco a poco a perdere realtà. Non c’è niente qui che debba essere necessariamente com’è: io potrei avere un altro aspetto, un altro modo di flirtare, potrei sostenere conversazioni tutte diverse. Anche se non so quali: l’altro luogo nella mia testa non ha nessuna identità precisa. E’ solo la consapevolezza che esiste un altro luogo, un altro punto alla base del triangolo, che rende questo luogo relativo, che situa anche me all’interno di quella relatività”(1).

L’attaccamento affettivo al luogo di origine(2) antropomorfizza le geografie, mantiene magiche le case dove si è vissuto, immobilizza le immagini – chi è partito mal sopporta il mutamento di quello che ha lasciato, il ricordo prevede il ritorno all’identico. Si rimane pendolari in viaggio per sempre, oppure adesivamente si attecchisce al mondo nuovo. Per Eva Hoffman la tesknota è “il presagio dell’assenza”, per Milan Kundera la prima sillaba di lítost suona come “il lamento di un cane abbandonato” : la nostalgia è un lutto infinito dove la memoria succede all’oblio.
E‘ ancora recente la ricerca del rapporto che si stabilisce con il luogo come “uno spazio fisico che ha acquisito un significato soggettivo per l’individuo” (3) e con il quale dunque si instaura un legame affettivo. Le tipologie di attaccamento ai luoghi – emotivo-familiare, estetica, funzionale, socioemotiva, cognitivo-culturale (4) – si intrecciano con i processi che avvengono nel momento del cambiamento e del distacco. Le nostre modalità di attaccamento sono segnate anche dalla nostra esperienza con i luoghi – e l’ansia da separazione può derivare dalla perdita del contesto di provenienza.
L’identità spaziale (5) dice quanto l’ambiente possa essere vissuto come un nemico e una minaccia, sentirsi in-place è l’obiettivo di ogni processo di integrazione in qualsiasi delle nostre metropoli creolizzate dove la place identity costituisce una parte importante del vissuto di individualità.
Tra gli psicoanalisti è Harold F. Searles ad occuparsi, decenni prima che lo spostamento divenga esperienza delle moltitudini e quando ancora la relazione fra terapia ed ecologia appariva una stranezza, del rapporto con l’ambiente fisico.

“E‘ mia convinzione che all’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, vi è un senso di colleganza con l’ambiente non umano, che tale colleganza è uno dei fatti di più straordinario rilievo nell’esistenza umana, che essa rappresenta per l’uomo – così come vale per altri aspetti fondamentali della sua vita – una fonte di sentimenti ambivalenti e che, infine, se egli cerca di ignorarne il valore, lo fa a rischio del proprio benessere psicologico”(6).

Per Searles la percezione soggettiva del bambino di fusione con la madre coincide con la fusione con l’ambiente, e il processo di separazione/individuazione riguarda quindi non solo il rapporto con l’ambiente madre ma anche la necessità di differenziarsi dal suo ambiente non umano. E‘ questo insieme che influenza profondamente la personalità globale di ogni individuo.

“Si può inoltre sostenere che è la qualità della personalità globale, con il cui sviluppo credo abbia molto a che vedere l’ambiente non umano, a determinare se l’individuo possegga, o meno, la forza indispensabile per guarire dalla nevrosi o dalla psicosi”(7).

L’avvicinarsi di un momento di smottamento psichico può dunque essere percepito come la perdita dell’ambiente non umano familiare.

3 Passare dall’est all’ovest era un cambiamento d’orario: il tempo storico ad occidente correva più veloce. Da un lato del Muro c’era la mancanza di motivazione – per eccesso di ordine e di burocratizzazione – dall’altro lo stress da competizione. In mezzo bunker e casamatte, fili spinati e dogane: frontiere. Luoghi minacciosi, dove controlli minuziosi delle identità si mischiavano al contrabbando, no man’s land che per decenni hanno generato incubi agli abitanti reclusi dietro la cosiddetta cortina di ferro. “Noi siamo i parenti bisognosi, noi siamo gli aborigeni, noi siamo i diseredati: arretrati, ottusi, deformi, squattrinati, scrocconi, parassiti, truffatori, imbroglioni. Sentimentali, all’antica, infantili, disinformati, apprensivi, melodrammatici, tortuosi, imprevedibili, negligenti” come autoironico declamava lo scrittore ungherese
György Konrád.
La società civile, che qui da noi c’era e di là invece mancava – le menti filosofiche e sociologiche migliori hanno dedicato anni di studi a questo concetto e alla critica della costruzione di un modello sociale dove il pubblico ha sempre la meglio sul privato. Nel socialismo reale, ma anche nella sua eccezione – l’autogestione del comunismo jugoslavo – l’io era sempre sussunto dal noi. Infatti la psicoanalisi era proibita e tabù, lo spazio interiore un luogo sospetto – per questo, come racconta magnificamente il film Le vite degli altri, era così importante che i microfoni fossero piazzati in camera da letto. L’esistenza di un io somigliava a un atto di coraggio, a uno scandalo. Della difficoltà di dire io è un’espressione che compare più volte in Riflessioni su Christa T., un testo nel quale Christa Wolf ripercorre, nella Germania orientale, in quel ’68 fatidico anche all’est perché anno dell’invasione sovietica di Praga, le vicende biografiche di una giovane donna, la sua malattia e morte attraverso le pagine del suo diario. Una vita senza alcuna importanza politica, irriducibile nella sua unicità.
Oggi, mentre cammino per le strade di Milano aperte alle manifestazioni della moda, Ordinary people è il cartoncino invito ad una mostra di tipi umani con fogge diverse. Il titolo è lo stesso del film vincitore del festival cinematografico di Sarajevo 2009: in Ordinary people la macchina da presa accompagna la giornata qualunque di un milite di guerra che uccide con la professionalità e la freddezza di chi svolge bene il suo lavoro. L’inglese, che ora permette la comunicazione tra est e ovest, non riesce a sottrarre alle parole il loro doppio senso.

4 E’ Berlino la città mutante, città del prima e del dopo, spazio urbano dove l’est e l’ovest hanno creato legami inattuali tra uomini e oggetti, dove la quotidianità del passante è avvolta da una architettura solenne, dove l’impensabile della Shoah è rappresentato da invenzioni monumentali, dove un numero di musei infinito registra la resistenza della memoria contro l’oblio. Berlino è un sito archeologico. La presenza del Muro segnava la sua lacerazione, la sua sparizione rende ora invisibili quelli che erano i punti di rottura, non fa intravedere la ricucitura. Luogo eventuale (8) turbato e perturbato, stuzzicante per l’antropologo aperto all’immigrante, dove è possibile andare a caccia del dimenticato. Nel cielo sopra Berlino gli angeli della storia volteggiano accanto agli angeli della nostalgia (9), sotto si ritrovano l’europeo dell’ovest e quello dell’est, una coppia unita a lungo dalla proiezione/illusione che fosse l’altro ad abitare in un mondo migliore. Corrosi molti concetti che li avevano divisi, possono smarrirsi insieme in una città dove è l’estranietà a trasmettere un senso di appartenenza.

5 La prima cosa ad essere divisa è stata la lingua: il serbo-croato è diventato un’espressione impropria, ciascuno ora ha un suo idioma (croato, serbo, bosniaco), la carneficina è stata preparata da un decennio di guerra delle parole. La casa è stata un obiettivo: la maggior parte degli edifici sono stati distrutti non dai combattimenti ma in precedenza o successivamente – per sradicare le infanzie, per rendere improbabile il ritorno. A segnare l’inizio del conflitto è una separazione: dal luogo d’origine, dall’abitazione, dai propri cari, da quanto era noto e conosciuto.
Il trauma si associa con la data della partenza per l’ignoto – è lo stesso momento che a volte dà il via ad avventure che paiono un romanzo. Il ritorno coincide con il desiderio irresistibile di rimettere piede: sono decine i morti saltati sulla mina davanti all’uscio. Le guerre stellari vanno a sbattere contro l’insormontabile che continua ad essere il corpo.
Rata neće biti (Non ci sarà la guerra): il titolo del documentario (2009) di Daniele Gaglianone non allude al prima, quando dopo l’indimenticabile ’89 un conflitto armato nel mezzo dell’Europa pareva incredibile, ma all’oggi, quando ad ogni crisi l’esclamazione esorcizza il possibile ritorno dell’orrore. Il paesaggio naturale rivela quanto in ex Jugoslavia è accaduto: nelle fosse ancora cadaveri, le foreste hanno ripreso il dominio di un territorio che era abitato dall’uomo, i nomi dei luoghi, immutati, indicano vie che portavano ai campi di prigionia e di tortura, i cimiteri presenti dappertutto. Nel filmato, come in un racconto lungo, il silenzio accompagna la macchina da presa che procede al rallentatore: le urla di chi non ha trovato scampo non riescono a dirsi in altro modo.

6 “Molto si è scritto intorno al déjà vu. Ma l’espressione è proprio indovinata? Non si dovrebbe parlare di circostanze che ci colpiscono come un’eco, il cui suono originario sembri essere stato emesso in qualche oscuro recesso della vita anteriore? Del resto, è un fatto che lo choc, con cui un istante si presenta alla nostra coscienza come già vissuto, ci colpisce per lo più sotto la specie di un suono” (10).

E‘ il tema del ricordo che unisce chi è partito in modo libero e pacifico oppure coatto e violento. Tenere tutto, buttare tutto – l’attaccamento agli oggetti tipico dell’emigrante: in guerra si rischia la vita per salvare l’album delle fotografie. Nel ritorno a casa è il corpo che riattualizza le sensazioni e le percezioni, ciascuno ha una sua madeleine dell’infanzia, i vissuti ritrovati partecipano della nuova identità.
In vicende storiche dilanianti l’uso pubblico della memoria confligge con le memorie private. La Storia scorre in parallelo alle età dell’individuo, è ancora il singolo a dover decidere il proprio tempo. Il ricordo può diventare un luogo, nel quale traslocare, nel quale rimpannucciarsi. Il ricordo può diventare quel punto – che sulla cartina non si trova più. Rimanere nella sospensione, fuori dallo spazio e dal tempo, tiene lontani gli stati emozionali, il disordine del senso (meaning disorder) protegge dalla sofferenza. Che spesso si rivela nel troppo/troppo poco dell‘immagine. Riuscire a sognare richiama l’esperienza del possibile, permette di riappropriarsi della propria capacità di tenere insieme corpo e mente. In casi di trauma storico (11) si hanno visioni, non si riesce a sognare nella propria lingua – lingua delle vittime/collaboratori/carnefici. Il significato manifesto del sogno assume un valore storico-simbolico, riesce a parlare del senso di colpa transgenerazionale, come un racconto per immagini consente di passare dalla visione all’emozione, dall’emozione alla narrazione.
La transitorietà come condizione permanente è quella che indaga lo scrittore André Aciman in testi (12) di autori ormai famosi che hanno in comune la lingua matrigna – l’inglese. Per Aciman, nato ad Alessandria d’Egitto, vissuto in Italia e in Francia, New York è una delle tante “città ombra” dove vuole “che tutto resti uguale”. Confessa il panico che lo coglie quando nel suo quartiere newyorkese si accorge di qualche cambiamento. Un giorno è una statua che gli piaceva tanto ad essere spostata. Pochi giorni dopo eccola di nuovo al suo posto. E’ solo a quel punto che riconosce in lei Mnemosine che, forse, veglia su chi è più di uno, ma meno di due.

7 L’attrazione per le parlate straniere, il divertimento nel guardare i film in lingua originale con i sottotitoli, garanti più del doppiaggio della corrispondenza tra suoni e significati, tranquillizzanti perché confermano la possibilità della traduzione. Una mia nonchalance nell’affrontare altre lingue straniere, con un’imprecisione grammaticale o di pronuncia, una sorta di dislessia orale che ribadisce l’impossibilità di possederne fino in fondo solo una.

“Le parole sono diventate la mia ossessione. Le raccolgo e le nascondo come fanno gli scoiattoli con le noci per l’inverno, le ingoio, ma la fame non fa che aumentare. Se ne assorbo abbastanza chissà, può darsi che riuscirò a incorporare dentro di me la lingua, a farla entrare nella psiche e nel corpo” (13).

Parole che toccano, che nutrono, parole come nuvole. La stanza d’analisi come un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato. Della possibilità di un rapporto intimo e ininterrotto con le parole.

” <<In>> è la proposizione chiave in analisi, credo più importante di <<con>>. <<In>> è la direzione chiave del momento psicologico, il sito chiave della psicodinamica, la posizione privilegiata dei valori dell’anima. (…) l’attività analitica si svolge all’interno. <<In>> è dove c’è azione, dove si nasconde la vera persona, il me interiore, ma anche dove il mondo interno si organizza” (14).

Sabina Spielrein, ebrea russa che arriva a Zurigo con già più lingue nel cuore, tra gli psicoanalisti è una delle prime a riflettere sulla sua esperienza di stratificazione linguistica – “nel piccolo popolo dei pionieri della psicoanalisi, quasi nessuno aveva fatto l’analisi nella propria lingua madre” (15).
In L’origine delle parole infantili papà e mamma (1922) individua tre stadi (autistico, magico, sociale) che segnano il rapporto con la cosa e la sua rappresentazione.

“Quando il bambino urla ‘mö-mö-mö’ non lo fa all’inizio perché questa parola gli ricorda un’azione, il succhiare, collegata a sensazioni gradevoli: in origine la parola non significava un’azione, essa era l’azione stessa” (16).

Il rapporto tra il piacere della suzione e le prime parole infantili è un evento nutritivo, da qui la sensazione di un autogodimento che ritroviamo da adulti quando apprezziamo un cibo con un ‘mm’ (17).
Sándor Ferenczi, nato in Ungheria da madre polacca, studi di medicina a Vienna dove avvenne il suo incontro con Freud, è l’unico altro tra i pionieri a occuparsi della dimensione linguistica (come se la sensazione di diversità avesse a che fare, anche, con un personale vissuto della parola?), a dedicare attenzione all’uso nella terapia di lingue diverse dalla materna.
Nel testo Le parole oscene: saggio sulla psicologia della fase di latenza (18), Ferenczi delinea uno stadio nel quale tutte le parole avevano la carica emotiva di quel sottosistema rappresentato dalle parole oscene ancora legate ad uno stimolo motorio (vicino all’idea di azione di Spielrein). Sviluppare le sue riflessioni può condurre a postulare l’esistenza di una lingua per le parti alte e una lingua per le parti basse, una lingua per l’Es e una per il Super-io, ad affermare che questa seconda lingua può essere comunicata in un’altra lingua straniera, ma può anche continuare ad esistere come sottosistema nella propria lingua – basti pensare a quanti utilizzano parole oscene nella sessualità, forse proprio perché vicine al piacere originario provato nell’emettere la fisicità del suono. Ferenczi mette in relazione il fenomeno linguistico con la possibilità di una dissociazione e per definire la difficoltà di comprensione tra adulti e bambini parla di “confusione delle lingue”.
Il legame tra lingua e trauma, intravisto da Ferenczi, si presenta nell’incontro con persone che hanno vissuto l’indicibile: e per raccontarlo scelgono un‘altra lingua da quella che evoca l’orrore. Lo testimonia l’importanza di incontri – in ex Jugoslavia ma non solo – con terapeuti che non parlano la lingua locale, ma, traducendo nella loro lingua, possono creare un luogo vicino/lontano – che permette al soggetto di vedere ciò che ha subito.
Parlare una seconda lingua oggi è un costume delle folle, l’esperienza delle adozioni internazionali permette di osservare che cosa accade quando la separazione riguarda, insieme, il paesemadrelingua. Le neuroscienze sottolineano che quella dell’infanzia nella corteccia ha un posto a sé.
Ma è Michail Michailovič Bachtin, uno dei più grandi teorici della letteratura del Novecento, inventore della translinguistica, che vede nell’unità del discorso una polifonia vocale in azione, a ricordarci che la lingua è sempre e ancora il rapporto tra un io e un tu.

“Tutto ciò che mi riguarda, a cominciare dal mio nome, giunge nella mia coscienza dal mondo esterno attraverso le labbra degli altri (della madre, ecc.), con la loro intonazione, nella loro tonalità emotiva basata su valori. Io prendo coscienza di me, originariamente, attraverso gli altri: da essi ricevo le parole, le forme, la tonalità per formare l’originaria rappresentazione di me stesso.
La vita per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare a un dialogo: interrogare, ascoltare, rispondere, consentire, ecc.” (19).

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Note

(1) E. Hoffman, (1989), Come si dice, trad. di M. Baiocchi, Donzelli, Roma, 1996, p.194. L’autrice, un’ebrea polacca che da ragazzina arriva nel 1959 nel Nuovo Mondo, ricostruisce in questo racconto autobiografico – il titolo originale è Lost in Translation. A Life in a New Language – le proprie lacerazioni linguistiche applicando a se stessa le teorie che studierà da adulta e riflettendo sul percorso psicoanalitico nella nuova lingua.
(2) M. T. Fenoglio, Andar per luoghi. Natura e vicende del legame con i luoghi, Ananke, Torino, 2007.
(3) T. G. Gallino, Luoghi di attaccamento. Identità ambientale, processi affettivi e memoria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p.99.
(4) Ibidem, pp.19-21.
(5) Ibidem, p. 108.
(6) H. F. Searles, (1960), L’ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia, Einaudi, Torino, 2004, p.7.
(7) Ibidem, p.20.
(8) I. Bachmann (1965), Luogo eventuale, trad. di B. Bianchi, Se, Milano, 1992.
(9) AA.VV., Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
(10) W. Benjamin (1950), Infanzia berlinese, Einaudi, Torino, 1973, p.37. Cfr. R. Bodei, Piramidi di tempo. Storie e teorie del dèjà vu, Il Mulino, Bologna, 2006.

(11) Sintesi di uno dei numerosi interventi sul tema in occasione di Dialogue at the Threshold between East and West: cultural identity, past, present and future, The first european Conference of Analytical Psychology, Vilnius, giugno 2009.

(12) Letters of Transit. Reflections on Exile, Identity, Language, and Loss, edited by André Aciman, The New Press, New York, 1999.

(13) E. Hoffman, (1989), op. cit., p.245.

(14) J. Hillman, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 18-19.
(15) J. Amati Mehler, S. Argentieri, J. Canestri, La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, p.29.
(16) S. Spielrein, <<L’origine delle parole infantili papà e mamma>>, in Sabina Spielrein. Una pioniera dimenticata della psicoanalisi (a cura di C. Covington, B. Wharton), Vivarium, Milano 2007, p. 494.

(17) J. Amati Mehler, S. Argentieri, J. Canestri, op. cit., p.81.
(18) S. Ferenczi, Opere. Vol. 1: 1908-1912, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008.

(19) Citato in J. Amati Mehler, S. Argentieri, J. Canestri, op. cit., pp. 375-376.

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Nicole Janigro, nata a Zagabria (Croazia), vive e lavora a Milano. Psicoterapeuta, analista di formazione junghiana, collabora a progetti di formazione legati al tema dell’elaborazione del conflitto, rivolti a volontari e operatori attivi sul campo nelle aree di crisi della ex Jugoslavia.

Ha svolto attività giornalistica ed editoriale, è autrice di L’esplosione delle nazioni (Feltrinelli 1993,1999), ha curato il Dizionario di un paese che scompare. Narrativa dalla ex Jugoslavia (manifestolibri 1994), l’antologia di narrativa Non troppo uguali. Storie di identità e differenze (con R.Cacciatori, Edizioni Scolastiche B.Mondadori 1999), La guerra moderna come malattia della civiltà, (Bruno Mondadori, Milano 2002), Casablanca serba. Racconti da Belgrado, (Feltrinelli, Milano 2003). Ha tradotto Il centro del mondo (il Saggiatore 1995) e Il divano orientale (il Saggiatore 1997) di Dzevad Karahasan e Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale di Bora Cosic (edizioni e/o 1997)

Bibliografia Nicole Janigro

Il terzo gemello (Acheronta movebo) 2010
La guerra moderna come malattia della civiltà (Testi e pretesti) 2002
L’esplosione delle nazioni. Le guerre balcaniche di fine secolo (Universale economica)
L’esplosione delle nazioni. Il caso jugoslavo (Anni novanta)

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