Elio Pecora, per Andrea Zanzotto

Elio Pecora, per Andrea Zanzotto

Ci si può perdere e sperdere nelle sue poesie, come accade a chi si spinge oltre il limitare di un bosco e sente di uscire dalla propria mente e dal proprio corpo: per lasciarsi in un tempo che non ha ore né giorni e non gli appartiene. Una perdita che è un incantamento. Un trovarsi nella misura dello sterpo, della foglia. Tornare acqua, vento, nuvola.

Accadeva altrettanto nella persona: la voce leggera, cantante, lo sguardo gentile, a momenti ironico. Da quali reami sconfinati di verità e di stagioni veniva quel suo “petel”: balbettio e mancamento, cenno e viatico inconsolato?

Molti anni fa, un tardo pomeriggio, nel teatro di Roma, all’Argentina, nel ciclo dantesco curato da Raboni, per non so più quale canto e di quale cantica. Nemmeno commentava, nemmeno diceva. La parola toccava l’aria, sorrideva nell’orrore della pena, nel crepitio della giustizia oltrumana, s’adombrava di paradiso.
Una sera, a metà degli anni Ottanta, in un locale dietro via Marmorata, si leggevano poesie. Avevo letto un fascio di versi d’amore e, guardandomi, malinconico e benevolo, si pronunciò. Era ancora possibile, in quegli anni, raccontare in quel modo l’amore?

Non muoiono i poeti se la loro essenza sta nei loro libri.

di Elio Pecora

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da Vocativo, di Andrea Zanzotto (1957)

Fuisse
I

Pace per voi per me
buona gente senza più dialetto,
senza pallide grandini
di ieri, senza luce di vendemmie,
pace propone e supremo torpore
l’alone dei prati, la cinta
originaria dei colli la rosa
dispersa il sole
che morde tra le tombe.
Ah la cicuta e il poco
formicolio, non più, colà sepolto.
Ah l’acqua troppo tenue che mi cola
oltre la gola e gli occhi al di là s’invischia
in tiepidi miseri specchi
su cui l’ortica insuperbisce.
Ed ah, ah soltanto, nei  modi
obsoleti di umili
virgili, di pastori castamente
avvizziti nei libri, nella conscia
terrena polvere,
ah ripeto io versato nel duemila.
– Ah – risuona il colloquio
in eterno sventato,
dovunque io passi, ovunque
l’aria mai sfebbrata mi sospinga,
la selva m’accompagni
e impari la vicenda non umana
del mio fuisse umano.
Futura età, urto di pietra
sulfureo sangue che escludi
che intellegibili fai questi
fiori e gridi ed amori,
non-uomo mi depongo
ad attenderti senza nulla attendere,
già domani con me nel mio fuisse,
pieghe tra pieghe della terra
cieca ad ogni tentazione d’alba.

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