Fabrizio Fantoni su ‘La nascita, solo la nascita’

Ricevo e pubblico per questo blog, la recensione di Fabrizio Fantoni per L’almanacco del Ramo d’oro su “La nascita, solo la nascita” di Luigia Sorrentino (nella foto di Dino Ignani). Nel video – realizzato da Romapoesia PoEtiche a cura di Franca Rovigatti e Maria Teresa Carbone – Luigia Sorrentino legge il poemetto “Lo slancio della rosa” contenuto nel libro.

di Fabrizio Fantoni

«”Ha la forma di uno scudo l’ala/ che si spinge esternamente su ciascun/ lato a millimetri, in quella vertebra/cerca un incavo al suo margine/ricorrente il gesto che stringe / fino a togliere il respiro/divampa come una forbice/si stende producendo la necessaria / vibrazione/ma di taglio non si riduce/la pena nella venuta,/ lo stare qui in mezzo/ come granello/ infinitamente o pulviscolo/ confusamente, al freddo”.


Con questa poesia, tratta dal poemetto “In quella vertebra”, si apre la raccolta di Luigia Sorrentino, “La nascita, solo la nascita” (Manni 2009, € 10,00). Bastano questi pochi versi introduttivi per rendersi conto che ci si trova di fronte a un’opera qualitativamente alta che immediatamente conduce il lettore su un territorio di confine – il labile margine che separa la vita dalla morte – in cui l’essere sembra sospeso in una condizione drammatica tra l’esserci e il non esserci più.
Il discorso poetico di tutta l’opera della Sorrentino fluisce attraverso un susseguirsi ininterrotto di immagini, situazioni, figure che sembrano riemergere dal fondo di un sogno. Ne deriva un verso espressivamente forte, in cui la trama di un tessuto narrativo – ben presente e riconoscibile nell’opera dell’autrice – trova forma in una scansione di suoni e simboli in cui si rapprende la verità di una esperienza umana. Il contingente diviene, così, uno schermo su cui si proiettano le inquietudini e le tensioni di un “io” che, pagina dopo pagina, in un flusso inesauribile di versi, abbandona le condizioni limitative che lo obbligano ad un’esistenza svuotata di significato – “la vita che non” – per trovare una primigenia essenza, una perduta integrità.

Appare chiaro come questi testi siano legati al tempo in cui sono stati scritti, un tempo in cui (come afferma l’autrice in una sua intervista a Rita Pacifici) “l’essere è andato via via perdendo il suo significato più profondo dell’esistere. Un tempo in cui è stata scritta prevalentemente una storia di morte e di distruzione, un tempo in cui il peso della morte ha prevalso su quello della vita”.

“La nascita, solo la nascita” rappresenta un ribaltamento di tale situazione, un rilancio di vita che si attua attraverso lo sdrucciolamento di una nascita posta in continua relazione con la morte “sempre in agguato”, “quella morte”, come scrive la Sorrentino in una sua poesia, “che guardo e mi fa male ad ogni sillaba”. Tutta la raccolta appare dominata da un profondo legame tra vita e morte riflettendo, in tal senso, il desiderio e la necessità, avvertita dall’autrice, di una nascita, o meglio di una rinascita, che si attua attraverso la sperimentazione della morte, di una luce che prorompe dalle tenebre, di un inizio che si genera da una fine. Scrive Paul Celan: “Per la morte si rivive, dice il vero chi dice ombre”. E’ chiaro, infatti, che solo dando voce alla morte è possibile far riemergere il massimo di verità.

Il legame fra nascita e morte permea anche lo spazio in cui si muove la poesia: un ambiente che, come dice Maurizio Cucchi nella prefazione al libro, si caratterizza per “una presenza materica al tempo stesso densa e ferocemente inquieta”. Quello descritto dalla Sorrentino è un mondo in continuo divenire colto nel suo farsi e disfarsi, una terra insidiosa e attraente, distruttrice e creatrice di vita, capace di sommergere l’uomo sotto una “pioggia di cenere e lapilli” ma anche di dargli “la gioia del filo d’erba / quando tutto è passato”.
Si vedano alcuni versi tratti dalla sezione intitolata “Il peso della terra” (poemetto in cui viene evocata la vicenda di un popolo scacciato dalla sua terra) in cui si legge: “Siamo venuti da un sentiero/ dal buio che l’uomo genera/ il buio del padre/ siamo venuti innanzi a te a vedere/ dopo la prima morte/ la tanto amata piangere”. Qui è la terra – “la tanto amata” – a piangere per il dolore del suo popolo, facendosi essa stessa, portatrice di un desiderio di riparazione, di un’istanza di rinascita.

L’opera della Sorrentino è dunque il risultato di un fluire della vita tutta nella poesia, di un coincidere della poetica con il senso dell’esistere quale grande e indifferente unità che tutto stringe nel suo scorrere.
L’istanza di nascita – o meglio di rinascita – che anima tutta la raccolta trova nell’ultima sezione del libro, intitolata “La Cattedrale” una sua definizione.

La Cattedrale, che etimologicamente è il luogo della cattedra dalla quale si impartisce la legge, diviene in questi componimenti il luogo in cui si ha il fermento di una creazione, in cui viene depositato il germe di un cambiamento: “come un male sdraiato/ nelle piaghe del mondo/sogno di uscire con il giorno/ e di incontrare quei semplici/ quando eravamo/ quel vento che non riesco a pronunciare/ quando il mattino è rarefatto,/ in un filo d’alba arriva e gli alberi/ prendono il colore che vogliono/ il giorno in un segno di luna/ a dismisura s’inclina su di noi/ e guarda, qua sotto nel suo freddo/ il liquido, le tinte, i cristalli”. Il lungo percorso esistenziale compiuto dall’autrice si qualifica così in quello che i Greci chiamavano nostos-ritorno: un viaggio a ritroso in cui l’essere, mediante la poesia, riacquista una dimensione più umana e più consapevole dell’esistere.

In questo senso, la nascita di cui parla la Sorrentino acquista i connotati di un processo di creazione artistica. Che cos’è dunque “la pena nella venuta” se non la poesia stessa che nascendo ristabilisce l’equilibrio tra il sé e il mondo? Questa visione è espressa, in particolare, nella poesia che chiude la raccolta: “a te che hai il compito di nominare/ fiori, alberi, animali e cose tutte/ a te che dichiari il nome nostro/ là dove tutto sembra nascondersi/ a noi che usciamo dallo spazio/ nella lingua del cielo come/ nuvole spaccate e in terra magnolie/ noi che non ci voltiamo indietro/ noi che torneremo, noi che saremo/ qui dove ora siamo”. E’ la poesia stessa che nomina la parola mancante, che dà forma all’esperienza umana definendola e determinando il ritorno ad una condizione umana dell’esistere, dell’essere insieme nel ritorno.

Lo stretto legame tra nascita e creazione artistica, trova un’ulteriore rappresentazione nell’immagine scelta dall’autrice per la copertina del libro. Si tratta di un particolare del quadro “Re uccisi al decadere della forza”, realizzato da Mimmo Paladino nel 1981 per la mostra “TerraeMotus” a Villa Campolieto ed oggi conservato nella Reggia di Caserta nella collezione Lucio Amelio. La figura filiforme, riprodotta sulla copertina, mostra “l’artifex”, l’artista, appunto, che, emergendo dal fondo grigio della tela in un gioco di dissolvenze, appare fluttuante su una terra dilaniata da un tragico evento. Con le forme geometriche del suo corpo “l’artifex” armonizza lo spazio che occupa, simboleggiando così la forza rigeneratrice dell’espressione artistica, la capacità dell’artista di mettere ordine al caos, di determinare una rinascita.»

 

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4 pensieri su “Fabrizio Fantoni su ‘La nascita, solo la nascita’

  1. Cara Luigia, ho letto per caso alcuni versi del tuo libro: La Nascita solo la nascita è mi sono apparsi sconvolgenti, vi è dentro la tua poesia l’ansia del mondo,il nucleo ispirativo dell’universale dolore che si compiace della perdita e avverte il desiderio di sopperire con la luce di un legame indissolubile tra il sè e l’altrui, tra l’io che indaga e la realtà che occulta. Bellissimi versi, qualche volta strazianti di una inquietudine e di una bellezza compiutamente realizzati: quando il mattino/ è rarefatto in un filo d’alba arriva/ e gli alberi prendono il colore che vogliono….STUPENDO, complimenti vivissimi e un abbraccio affettuoso Ninnj

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