Opere Inedite, Umberto Piersanti

Opere Inedite
a cura di Luigia Sorrentino

A Opere Inedite leggiamo la poesia di Umberto Piersanti che ho conosciuto a Urbino nel 1985. Mi colpì moltissimo il suo modo di parlare, la sua voce ‘graffiata’ fermò il tempo in un paesaggio, in un colore che io vidi, insieme a lui, affacciandomi da una strada sull’altopiano delle Cesane.
Ecco quanto mi scrive Umberto Piersanti sulla poesia.
“Fermare il tempo, cercare di fissare un giorno, una situazione, una vicenda. E metterla lì con le parole giuste, in modo preciso ed esatto: è un sasso dentro un torrente che, almeno per un po’, non sarà travolto dalla fiumana d’acqua. Certo, sono un poeta della memoria e ricordo l’antico mondo contadino della mia infanzia. E quel ‘contadino’ comprende tutta una civiltà che riguarda anche chi non centra con la vita dei campi.
Il mio sguardo però è molto differente da quello di un Pasolini o di un Olmi che contrappongono l’autenticità di un tempo ormai passato alla inautenticità e alla banalità dei nostri anni. Pasolini lo fa da una posizione ‘rivoluzionaria’ e nello stesso tempo ‘nostalgica’ sostenuta da un’ideologia di fondo marxista-cristiana; Olmi si muove da una posizione cattolica tradizionale con una forte radice spiritualista e popolare. Io non voglio contrapporre, ma solo ricordare. La memoria nel suo tornare indietro nel tempo incontra il sogno. ‘Una volta passati sogni e ricordi sono la stessa cosa’ sostiene il protagonista del mio romanzo L’uomo delle Cesane.
Così le figure della mia infanzia diventano mitiche, perse in un mondo fuori del tempo e dello spazio, anche se poi personaggi e luoghi risultano concretamente determinati. E in questo mondo s’incontrano con personaggi fantastici, come la fata, i folletto, il diavolo cane-nero chiamato sprovinglo ed altri ancora.
Nessuna simpatia per la new age: il fantastico ha certo una sua ‘realtà’ consistente ma non deve pretendere di divenire realtà effettiva. Figure e vicende sono simboli ed incarnazioni delle paure e delle speranze che s’agitano dentro di noi e che ogni tempo, ogni luogo e direi, perfino ogni persona, rappresentano con modalità proprie.
Il mondo contadino non era per me più bello e più vero, ma era quello della mia infanzia ed è definitivamente scomparso. E tutto ciò che è definitivamente scomparso non può che coinvolgerci e commuoverci: intendo dunque la mia poesia come una testimonianza di vicende e luoghi che pretendono di non scomparire, di essere raccontati. Ed il ‘personale’ riveste comunque una notevole importanza.
Pochi anni come i nostri hanno dedicato una così scarsa attenzione alla poesia. Carducci, Pascoli e D’Annunzio erano punti di riferimento e di discussione per chiunque avesse un medio bagaglio culturale. Ungaretti recitava in televisione. E in terza elementare la maestra mi ha fatto leggere una sua poesia: La madre. Oggi la scuola e i mass-media ignorano quasi completamente i poeti italiani contemporanei. L’unica autrice nota, Alda Merini, è stata vissuta dai mass-media come una particolare e dolorosa vicenda personale. E questo, certo, non è servito per mettere a fuoco la poesia contemporanea: chi conosce nel grande pubblico i nomi di Mario Luzi o di Vittorio Sereni? Solo per restare tra i classici del secondo novecento.
I miei studenti hanno costituito un gruppo denominato La resistenza della poesia. E questa resistenza io non la leggo in modo particolare sul piano dell’impegno civile. Con il suo esserci la poesia mantiene la forza della parola e della testimonianza in un tempo che non è il peggiore dei tempi, ma che comunque è invaso anche nelle arti e, in particolare nella letteratura (pensiamo all’abnorme proliferazione del giallo e dell’horror), dal ‘mercantilismo’ più sfrontato e banale.”

di Umberto Piersanti

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Presso un edificio dei tempi nuovi

e quella forma immensa
di bruno metallo o altro,
materia che trapassa nubi
e cielo, verso il quadrante
scuro dove s’arresta l’aria
ed ogni luce ha fine,
come sospesi gli alberi
fermi nel lungo volo,
ma sono vere l’erbe
dentro perfette aiuole
che il compasso disegna
senza terra e radici,
senza linfa e sangue

vengono da ogni vicenda
e da ogni storia, confusi
nelle vesti e nelle lingue,
non sanno ciò che viene
e quel che è stato,
le falangi d’uomini infinite,
il vento le disperde
come rena

tu ci cammini in mezzo
non li conosci,
monadi dice il filosofo
senza porte e finestre,
in un suo cieco sogno
ogni monade vive rinserrata
ma la sua storia ha dentro
disegnata,
a volte ti balena
per frammenti

le volte di Risciolo,
c’era una pozza grande,
ci lavano le donne
i panni bianchi
poi salgono coi cesti lo stradino,
dentro la spuma bianca
dei saponi
scendiamo noi felici
tra le bolle

un nido poi ricordo
così lontano,
chiuso tra bassi rami,
tenero, con le foglie
e caldo come la vita

l’istante che balena
è il più perduto,
ogni memoria è sempre
la più lontana,
l’Eden che ci accompagna
così remoto,
la sua eco flebile
e tenace

c’era il miele che stilla
dalle querce,
le more gonfie e nere,
il fico viola e dolce
tra le foglie,
le pecore che vanno giù
nei greppi,
una ragazza chiara come l’aria
scende nell’acqua
che di verde odora

chissà se ognuno porta nella mente
il suo giardino chiaro e luminoso
se c’è chi ne fa a meno
nel cammino

più fitte e numerose
che nei poemi,
folte più che acini
d’uva nei canestri,
di tutti i semi e l’erbe
sparse nei campi,
passano le figure
sotto la mole,
non sai da dove vengono,
dove andranno,
ma tu sei lì nel mezzo
che cammini,
la sorte più fraterna
e più distante

(fine luglio 2009)

***

 
Diario di bordo

 

presso la foglia fradicia
del tiglio e dentro l’erbe
fatte quasi bianche,
nel suo rosa sempre più pallido
e tenace, un cespo di ciclamini
si rinserra, fragili i gambi
e curvi, inzuppati d’acque,
ma fino a quando arde
dentro la bruma spessa,
la nebbia nera,
quel rosa che settembre
accese con un suo vento
morbido e celeste?

no, la brina non lo stronca
e non lo schianta il vento,
forse l’eterno è nel pallido
colore che mai si spegne
e alla terra eterna
s’annoda e confonde,
ma dicembre viene
e nel gelo lo spezza

c’era lì nell’orto
un lungo ramo
con i passeri in fila
bianchi di neve,
solo il rosso dei cachi
un po’ trapela
tenace, nel chiarore,
che l’avvolge

e non sei mai solo
come quando dalla finestra
d’un albergo nuovo
dentro ogni macchina che passa,
infinite, coi fari,
tra la pioggia,
i volti dei viandanti
tu intravedi

annota nel diario a bordo
vicende e cose,
minute o immense
questo conta poco,
e le stanche domande
non segnare,
perché un vecchio
corre lungo il mare
e tra le tamerici ingiallite
o spoglie, una sola
è rimasta verde?

appunti, solo appunti
sparsi, il veliero continua
l’incerta rotta

cerca le sue Galapagos,
ogni moto e caduta
lì forse ha un senso,
sale una bruma immensa
spegne astri e quadranti,
la rotta che s’è persa

(dicembre 2009)

cerca le sue Galapagos: in queste isole Darwin cercava la conferma alla sua teoria sulle origini e lo sviluppo della vita

***

Presso il tronco del tiglio
il campo era una landa
desolata e crepe nella terra
fitte e vuote, e fumo
dentro l’aria senza luce
e gloria, senza un odore,
un soffio che l’increspi appena,
e tu t’inoltri
in mezzo ai ceppi arsi,
la polvere che sale
dai piedi stanchi
ti cerchia volto e mani,
spezza il cammino
dopo un’aiuola incontri
di fiori azzurri, il nome
quello della memoria che non cede,
tornano chiari i rivi
più remoti,torna la mano
che tra le zolle
e l’erbe ti sorregge
ma è solo un istante
nel faticoso andare
che prosegue,
e torna l’aria nera
e affumicata, la polvere
che t’entra giù nella gola
solo nella piana
svetta un tiglio enorme,
sono i suoi rami
nudi e sbriciolati
e le torte cortecce
al vuoto appese,
ma un cespuglio alto
e luminoso cerchia il gran tronco
e l’aria rasserena
tu ci sprofondi
con gli occhi e con le mani,
tra quelle grandi foglie
nascosti sono i suoni
e le figure
una balaustra bianca
sul confine
e va giù il sole piano
dietro il Carpegna,
lei con la gonna azzurra
scende sul prato
e tu lento la segui
nella gran luce
ma quale tempo era
non lo ricordo,
non ho mai più rivisto
l’uva spina
con quegli acini grandi,
gonfi e ramati,
forse cresce solo
dentro quell’orto,
il più verde e remoto,
anche il più lieto

 

dopo che gli occhi
hai sollevato dalle foglie
e ripreso hai la strada
torna l’arsura,
tornano l’erbe secche
e impolverate,
scompaiono del tiglio
le figure
ma se un altro ceppo
incontri nel cammino
c’è come un vento lieve
dentro l’arsura,
t’accarezza la fronte
e poi scompare

(agosto 2010)

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Umberto Piersanti è nato nel 1941 a Urbino, dove vive. Per Einaudi ha pubblicato le raccolte di poesia: ‘I luoghi persi’ (1994), ‘Nel tempo che precede’ (2002) e ‘L’albero delle nebbie’ (2008). Roberto Galaverni e Massimo Raffaeli hanno curato il libro-intervista ‘Il canto magnanimo. A colloquio con Umberto Piersanti’ (peQuod 2005).

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