Mercoledì 8 giugno alle ore 18,00
alla Casa delle Letterature (Piazza dell’Orologio 3, Roma) Andrea Cortellessa, Giovanni Maccari, Raffaele Manica, Salvatore S. Nigro e Emanuele Trevi parleranno di Viola di morte di Tommaso Landolfi e Ti ucciderò, mia capitale di Giorgio Manganelli, entrambi editi da «Biblioteca Adelphi». (Nella foto da sinistra a destra,Tommaso Landolfi e Giorgio Manganelli)
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Tommaso Landolfi Viola di morte «Biblioteca Adelphi» pp. 317, € 22,00
In libreria dal 18 maggio 2011
Viola di morte
La prosa di Landolfi, tra le più musicali della letteratura italiana, lascia intravedere in filigrana un’ambizione poetica dirompente ma al tempo stesso messa a tacere, forse per l’oscuro timore – evocato in un racconto del 1937, «Night must fall» – che a lasciarsi andare «ne sarebbe venuto fuori qualcosa di troppo bello … e allora tutto sarebbe finito e riprecipitato in una voragine senza fondo». Ancorché non esercitata, tuttavia, quella «divina facoltà» non poteva che riaffiorare: non a caso, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre si accentua il suo sdegnoso isolamento, Landolfi abbandona ogni progetto di romanzo per dedicarsi a una scrittura diaristica, e dunque innocente, che prepara il ritorno alla poesia. «Non trovo conforto / Se non nelle distorte / Battute / D’una musica perduta. / La prosa m’opprime: / Non la parola che dirime, / Mi giova, / Ma l’avventurosa prova / Del verso gettato al vento» leggiamo in Viola di morte, diario in versi apparso nel 1972, dove Landolfi ci mostra quel volto che sempre aveva velato «in modo quasi ossessivo, come se fosse dominato da un puro istinto di sopravvivenza che lo costringa a ripetere continuamente il suo nome» (Citati). Ed è il volto sublimemente lunare e tenebroso, talora deformato dal rancore, di chi, murato in «queste aride sedi / Di terrore e d’angoscia», non conosce che la «Soverchiante fatica / Della vita vissuta», il dileguarsi dell’amore e il dilagare della morte – castigo terribile di un Dio livido e iniquo. Ma il sogno che «il nulla avvolga nelle sue pieghe dissimulate, fruscianti e trionfali ogni cosa e ogni persona» cela il bruciante desiderio di cogliere «tutto ciò che sta “più in là”, e di cui non vedremo mai traccia», e persino rabbie e furie non sono che «sempre rinnovate dichiarazioni d’amore all’infinito» – talché, e sono ancora parole di Citati, il senso ultimo di Viola di morte è quello di «un’attesa senza nome, di una nostalgia continuamente delusa, di una speranza che osa appena intravedere un vago fantasma lungo i nuvolosi e fuggevoli confini del cielo». Collisione, quella tra un mondo atrocemente rimpianto e la sua perentoria negazione – e dunque tra canto e istanza ragionante -, che trova in questi versi una mirabile espressione:
Credevo allora d’essere in esilio
E che un prossimo giorno
Avrei potuto far ritorno
Al mio reame sconfinato, e tutto
Che qui m’era rapito
O rimaneva inascoltato –
Soavità, bellezza,
Amore, gioia, tenerezza,
Gloria, potenza – mi sarebbe reso.
Oggi ben so che questo,
Questo e non altro è il sordo regno mio
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Giorgio Manganelli Ti ucciderò, mia capitale, A cura e con un saggio di Salvatore S. Nigro «Biblioteca Adelphi» pp. 372, € 25,00
In libreria dal 23 marzo 2011
Ti ucciderò mia capitale
Avventurandosi in questa silloge di scritti inediti, stesi fra il 1940 e il 1982, chiunque pensasse di conoscere Manganelli dovrà ricredersi, giacché l’intera sua produzione risulta illuminata come da una luce radente – quella che emana da un laboratorio segreto e pieno di sorprese. A partire dal tenebroso racconto che dà il titolo al volume: «M’ero disegnato il suo corpo come una mappa, con vene di strade e arterie di ramblas e avenues carotidee e i crescentes capezzolati e le esedre genitali» leggiamo già inquieti, e non tardiamo a comprendere che si tratta del corpo indifeso e passivo – eppure smisurato e minaccioso – di una donna che dorme. C’è un solo modo per sbarazzarsi di quell’atlante infinito, per evadere dalla casa di carne che lei ha costruito, ci spiega la nitida e allucinata voce narrante: accostarle una rivoltella alla tempia e straziarla: «Ti ucciderò, mia capitale; mio quartiere residenziale; sede del mio deportato governo; mia Stadt; esilio di turbolenti anarchici». E non meno fosca, allarmante è la bellezza degli altri racconti, nutriti di poesia barocca e dei prediletti Swift, Lamb e De Quincey, dove si agitano personaggi-paesaggio vittime di alterazioni dimensionali, visitati da incubi, metamorfosi e apparizioni polimorfiche, attraversati da forze oscure e angosce, assediati da un nulla «popolato di nulla tormentosi» – e capaci di parlarci di verità ultime quasi celebrassero una fastosa e gelida cerimonia verbale. Come colui che, nel fulminante Un libro, illustra il colpo segreto che ci resta – la morte volontaria – quando tutto sembra perduto; la convivenza con il nostro «quotidiano assassino», il nulla; la necessità dell’odio, legittimo rifiuto delle «fascinose soluzioni sbagliate»; la vana ricerca di Dio, di cui non conosciamo che una forma ingentilita e commerciabile: «una divinità sorridente, qualunquista, transigente».
Per informazioni: www.adelphi.it